Carenza infermieri: ne mancano oltre 50mila. Rischio servizi in calo e mortalità in aumento
La FNOPI ha chiesto ufficialmente un tavolo di confronto sulle carenze di personale infermieristico al ministro della Salute e alle Regioni, per studiare come modificare la composizione del personale nel quadro di invarianza delle risorse e per la tutela della salute dei cittadini
Se ogni infermiere assistesse al massimo 6 pazienti, sarebbero evitabili almeno 3.500 morti l’anno.
Gli studi pubblicati su riviste internazionali (JAMA e British Medical Journal) parlano chiaro: a un incremento del 10% di infermieri, corrisponde una diminuzione della mortalità del 7 per cento.
In Italia ogni infermiere assiste invece in media 11 pazienti, nelle Regioni migliori scendono a 8-9, ma nelle regioni più tartassate dai piani di rientro salgono fino a 17-18 con un rischio di mortalità in più quindi che raggiunge in media il 30-35% circa. Ciò nonostante questi numeri non si raggiungono perché gli infermieri da sempre si prodigano per garantire la maggiore sicurezza possibile anche nelle attuali condizioni di carenza.
Ma la situazione è intollerabile e richiede un intervento urgente a tutela dei cittadini.
Per questo la FNOPI, Federazione nazionale delle professioni infermieristiche, il maggior Ordine italiano con suoi oltre 440mila iscritti, ha chiesto ufficialmente un tavolo di confronto sulle carenze di personale infermieristico al ministro, per studiare come modificare la composizione del personale nel quadro di invarianza delle risorse.
Sono i dati internazionali a parlare: ogni volta che si assegna 1 assistito in più a un infermiere (il rapporto ottimale sarebbe 1:6) aumenta del 23% l’indice di burnout, del 7% la mortalità dei pazienti, del 7% il rischio che l’infermiere non si renda conto delle complicanze a cui il paziente va incontro.
Ipotizzando quindi che si riesca ad avere un rapporto di 1 infermiere per 6 pazienti e nello staff fosse presente almeno il 60% di infermieri, potrebbero essere evitate, appunto, 3.500 morti l’anno.
Secondo uno studio francese nelle Unità di terapia intensiva, sotto la soglia di 2 infermieri ogni 5 pazienti e di un medico ogni 14 pazienti (in sostanza qui il rapporto è di 5-6 infermieri per medico), si assiste a un aumento significativo del rischio di mortalità. E lo stesso studio ha dimostrato che in caso di aumento dei carichi di lavoro, con aumento del turnover dei letti o in caso di aumento delle manovre salvavita da parte del team di guardia, il rischio di mortalità aumenta di 5,6 e 5,9 volte rispettivamente.
E un recente studio inglese su pazienti post chirurgici andati incontro a complicanze trattabili ha rilevato che il rischio di morte da complicanza era inversamente correlato al numero di infermieri e medici per paziente.
Sempre dall’Inghilterra e ancora nelle Unità di terapia intensiva è stato dimostrato che pazienti trattati e gestiti nel momento in cui l’intensità del lavoro in reparto era maggiore, avevano un rischio di decesso raddoppiato rispetto a quelli ricoverati in periodi di maggiore tranquillità. Tre misure del carico di lavoro erano risultate correlate col rischio di mortalità: tasso di occupazione, il fabbisogno medio di personale infermieristico per letto per ogni turno lavorativo (definito dalla Uk Intensive care society) e il rapporto tra letti occupati e personale medico e infermieristico necessario.
In Italia se mancano i medici figuriamoci gli infermieri: il nostro Paese secondo l’Ocse, che con l’Oms e la Commissione europea critica la situazione, è quello col più basso rapporto europeo medici/infermieri, indice questo già di una forte carenza di personale tanto che siamo al 35° posto (su 36 Paesi membri) nella classifica dei Paesi che fanno parte dell’ Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
A mancare quindi è soprattutto un serio ed equilibrato rapporto tra i professionisti che si realizzi attraverso lo sviluppo delle competenze. Infatti gli infermieri che mancano per mantenere il giusto rapporto definito a livello internazionale da Oms, Ocse e Comunità europea di almeno tre infermieri per medico (come standard minimo), sono nelle aziende sanitarie italiane 50-53mila secondo i dati che emergono dall’ultimo Conto annuale pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato che il Centro Studi FNOPI ha elaborato.
Nelle Regioni più tartassate dai piani di rientro per raggiungere il rapporto ottimale di uno a tre mancano oltre 9.700 infermieri (Sicilia) o 8.900 (Campania).
Secondo una recente analisi dell’Adapt, associazione senza fini di lucro fondata nel 2000 da Marco Biagi, che promuove, in una ottica internazionale e comparata, studi e ricerche di lavoro, è importante garantire un equilibrato skill mix (ovvero il rapporto tra il numero degli infermieri e il numero dei medici o tra medici generici e specialisti che anche il Cergas Bocconi porta avanti come soluzione per la sostenibilità del Ssn in cui aumentano cronicità e non autosufficienza) per garantire un’equa distribuzione di attività tra professionisti ed evitare un eccesso di offerta di profili professionali a discapito di altri (medici versus infermieri, medici specialisti versus medici generici), con conseguente allocazione inefficiente delle risorse.
Inoltre nei pazienti anziani, pluripatologici, ricoverati spesso in reparti che non riguardano la specialità di cui hanno bisogno, le criticità legate a ricoveri in setting inappropriati sono conseguenti alla presenza di personale medico e infermieristico formato per problemi clinici differenti, alla mancanza di continuità e assiduità della presenza in reparto.
C’è bisogno di più infermieri quindi – afferma la FNOPI – e, possibilmente, anche della giusta specialità per affiancare il medico specialista nell’assistenza del paziente.
Attualmente, secondo la Federazione, il dibattito è attraversato da periodici allarmi di taglio “settoriale”: mancano medici negli ospedali, mancano infermieri, mancano medici di famiglia. L’assenza di ogni riferimento a orizzonti complessivi, come, ad esempio, i vincoli finanziari e reali che i diversi Ssr sperimentano e la necessità di operare delle scelte sul mix delle assunzioni (ogni assunzione ne preclude un’altra), comporta il prevalere di logiche incrementali basate sugli equilibri consolidati e sui rapporti di forza (capacità di interlocuzione e di interdizione) tra le diverse professioni e discipline.